La Commissione Istruzione del Senato della Repubblica, mercoledì 2 dicembre 2020, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento, ha ascoltato, in videoconferenza, il professor Pier Cesare Rivoltella, direttore CREMIT e presidente SIREM.
Riportiamo qui alcuni passaggi salienti del discorso proposto, che è rintracciabile al link http://webtv.senato.it/4621?video_evento=143201.
Sono le parole di Vilém Flusser, uno straordinario pensatore dei nuovi media, ad introdurre questo intervento, che ricordano che da sempre nella storia della comunicazione dei media, da noi inventati e sviluppati in questi anni, i confini d’epoca hanno generato oscillazioni, incertezze, dubbi sui pericoli delle nuove tecnologie e dall’altra parte grande fascino per le nuove opportunità da esse dischiuse.
Quando si parla del rapporto tra tecnologie e gli apprendimenti occorre sempre fare molta attenzione: l’apprendimento è un fenomeno complesso, che non si presta a spiegazioni lineari e non autorizza l’introduzione di relazioni di causa-effetto. Ciò significa che è necessario rimanere distanti da opposte tentazioni: la tentazione del tecno-ottimismo, incline a ritenere che il digitale, agendo su curiosità e motivazione, migliori la prestazione di apprendimento; come la tentazione del tecno-scetticismo, convinta che il digitale rappresenti un elemento di degenerazione dei processi cognitivi.
Queste soluzioni, per quanto polarizzate, condividono lo stesso filo di pensiero: il determinismo tecnologico, ovvero la convinzione che la tecnologia da sola possa produrre effetti sui comportamenti e i valori degli individui.
La scarsa riuscita scolastica di uno studente è colpa del digitale oppure dei suoi insegnanti, della relazione con la classe, della famiglia in cui vive, del quartiere in cui cresce, degli stimoli culturali che ha potuto ricevere? Isolare la sola variabile della tecnologia, tra te tante altre che concorrono a determinare la riuscita o l’abbandono scolastico, è difficile, se non impossibile.
Paulo Freire nel testo Educare con i media, durante i primi anni ’80, scrive che una delle cose più tristi per un essere umano è quella di “non appartenere al suo tempo” ed aggiunge che la radio, la televisione e perfino le telenovelas fanno parte dei suoi consumi culturali, per criticarli, ma ne fanno parte. A livello pedagogico, ciò significa dichiarare per chi fa educazione, per l’insegnante, per la scuola di essere contemporanei rispetto al proprio tempo.
Questo comporta alcune conseguenze:
- Non ha senso chiudersi in atteggiamenti di ostracismo nei confronti del digitale, poiché sarebbe come chiamarsi fuori dal nostro tempo;
- Non ha senso collocare media e tecnologie fuori dalla scuola, una scuola senza media e tecnologie è una scuola del passato, che probabilmente non riesce a dar conto dei problemi della contemporaneità; è una scuola che rischia di negare agli studenti il suo aiuto per sostenerli nel trovare delle risposte;
- I media e le tecnologie devono stare nella scuola sia come strumenti e ambienti a supporto degli apprendimenti sia come forme della cultura, ne va della contemporaneità della scuola, ovvero della sua capacità di fornire agli studenti le chiavi interpretative della società e della cultura in cui vivono.
Alcuni fenomeni richiamano la nostra attenzione in tema di apprendimenti:
a. Il prevalere di forme di lettura superficiale, a discapito della comprensione profonda del testo scritto
Maryanne Wolf definisce “lettura profonda” <<l’insieme di processi che consentono al lettore di comprendere quello che sta leggendo e di attribuirvi un significato. La base della lettura profonda è un ragionamento analogico che presiede all’attribuzione di significato a quanto stiamo leggendo a partire da script che sono già presenti nella nostra mente. Ai suoi livelli più alti, la lettura profonda consente nell’immaginare mondi possibili, nel lavorare sulle disgiunzioni di possibilità presenti nel testo, di seguirne gli sviluppi attraverso la costruzione di vere e proprie passeggiate inferenziali, come le definiva Umberto Eco. Nella lettura profonda si è portati a vedere le cose dell’universo narrativo con gli occhi dei personaggi: fare questo significa mettersi nei panni degli altri, provare quello che provano.
È un’esperienza che Vittorio Gallese, neuroscienziato della Scuola di Parma, ha spiegato molto bene nelle sue basi neurofisiologiche, dimostrando che il circuito-specchio rende possibile nell’uomo una vera e propria simulazione incarnata di quanto viene vissuto per interposta persona nell’universo narrativo, questo in maniera particolarmente efficace in un racconto per immagini, come nel caso del cinema. Se ci mettiamo nei panni degli altri, se grazie al racconto impariamo a leggere l’anima dei personaggi, impareremo a comprendere meglio anche quello che caratterizza il nostro mondo interiore. Se si leggesse di più forse si sarebbe meno aggressivi e più predisposti verso gli altri>>.
b. La modificazione dei tempi e dei ritmi dell’attenzione
Nelle società tradizionali, l’attenzione era normalmente focalizzata, ci si poteva concentrare ad un compito per volta, in quelle società i compiti erano scanditi e distanziati, rendevano possibile che li si prendesse in considerazione singolarmente, successivamente. Oggi questo non è più possibile se l’obiettivo è quello di tenere sottocontrollo la molteplicità di stimoli da cui siamo raggiunti, non si può soffermarsi su uno solo di essi. L’attenzione periferica si sposta continuamente da uno stimolo all’altro, giusto il tempo di un check prima di correre via e fare la stessa cosa con il successivo. Il risultato è un “prestare attenzione per piccoli assaggi successivi”, è uno spezzettamento della nostra vita percettiva che impedisce di sostare sul singolo istante, ma consente solo di scattare una sequenza di istantanee. Credo che tutti noi facciamo questa esperienza nella nostra vita professionale.
c. Il prevalere dei pensieri veloci nella presa di decisione
Sono veloci quei pensieri che sorreggono le nostre decisioni in tempo reale, sopratutto in quelle situazioni in cui siamo portati a rispondere istintivamente, senza pensarci troppo, perché prendersi il tempo per pensare comporterebbe di rendere vana la decisione. È il tipo di pensiero che guida il professionista esperto, che decide sulla base di quello che i suoi marcatori somatici e il sistema della previsione gli suggeriscono. A contrario dei pensieri veloci, i pensieri lenti sorreggono le decisioni ponderate (premio Nobel Daniel Kahneman): valutiamo tutti gli elementi, vagliamo mentalmente delle ipotesi, arriviamo ad una decisione valutata con calma, sorretta da argomentazioni. Questo è il ciclo del pensiero computazionale tradizionalmente inteso. Esso richiede tempi distesi perché la complessità dei passaggi che porta in gioco, mal si concilia con la decisione rapida che, invece, i pensieri veloci sorreggono. In particolare, i pensieri lenti mal si prestano ad affrontare il problem solving complesso quando esso richiede delle decisioni senza esame completo dei dati. Pare illogico decidere senza essersi presi il tempo per considerare tutti i fattori che possono entrare in gioco nella situazione complessa a cui ci si sta rapportando, ma questo è esattamente ciò che succede in buona parte delle nostre decisioni. Siamo in buona parte costantemente indirizzati dalla nostra fede percettiva, dalle nostre sensazioni, dalle nostre esperienze pregresse e questo ci solleva dall’analisi compiuta dei dati disponibili, perché concedersi il lusso di un’analisi compiuta potrebbe voler dire di condannarsi all’intempestività rispetto alla vita che, come stiamo vedendo in questo periodo, il tempo viaggia sempre più veloci di quanto le nostre analisi non potrebbero prevedere.
La tecnologia in sé credo non sia causa del fatto che non si legga in profondità o che l’attenzione si modifichi o che si prediligano i pensieri veloci. La colpa non credo sia della tecnologia. Spiega Hartmut Rosa che lo si vede bene nell’esempio dell’email. Nulla in questa tecnologia mi costringe o mi induce a scrivere un numero maggiore di messaggi al giorno, anche se naturalmente la tecnologia è una condizione che rende possibile tale aumento. Lo conferma anche l’evidenza storica. Essa mostra, infatti, che le rivoluzioni tecnologiche dell’era industriale, così come quella digitale, furono entrambe mosse dal desiderio di tempo che caratterizzava la società moderna e furono la risposta al problema crescente della sua penuria. Non c’è una causa lineare di causa-effetto tra l’uso della tecnologia e lo sviluppo di determinati comportamenti, anche se è certo che la tecnologia sia coerente con l’economia del tempo oggi prevalente. Per chi ha fretta, per colui a cui il tempo non basta mai, la rete fornisce un supporto perfetto, azzerando lo spazio e riducendo il tempo all’istante, essa è funzionale ad un consumo rapido e proprio per questo necessariamente distratto. Chi naviga corre via sulla superficie dei contenuti, non indugia, non si ferma. Il tempo della sua attenzione è quello di un click, ma tutto questo non è prodotto dalla rete stessa, bensì dal sistema di vita in cui ci troviamo inseriti. Si correrebbe via comunque, anche se i media digitali e sociali non fossero mai stati inventati.
Il vero problema è la velocità, l’accelerazione a cui ci stiamo progressivamente sempre più condannando. Il digitale è una concausa perfettamente coerente con la “società della fretta”, ma non certo la sua causa.
La scuola cerca di dare un senso a tecnologie che non sono nate per l’apprendimento, ma per l’intrattenimento, la comunicazione, la produttività aziendale. Insegnanti e docenti devono avere consapevolezza di questo fatto per padroneggiarne l’uso e sfruttarne le potenzialità a servizio dell’insegnamento. Ci sono apprendimenti che esigono risposte rapide, altri che pretendono riflessione e tempi distesi, altri la capacità di lavorare individualmente o in gruppo a compiti complessi, inediti, a cui può essere utile il ricorso al pensiero creativo. Non di rado, invece, all’interno della scuola si assiste all’istintiva riproposizione di modelli logori, mutuati da contesti esterni, o si ricorre alle tecnologie per appagare i sensi e dare appeal all’istituzione.
Il lockdown che ha imposto la DAD nelle nostre scuole, ha messo in evidenza la mancanza di una cultura pedagogica matura e radicata, l’inesperienza di alcuni insegnanti di fare pienamente ricorso alle potenzialità delle tecnologie. Raramente si sono proposti lavori di gruppo partecipativi, fuori dalle piattaforme istituzionali, lavori di peer-teaching, apprendimento collaborativo in rete o l’impiego di risorse aperte. Si è continuato a fare conti con gli orari e il calcolo dei tempi, come se l’apprendimento potesse essere misurato in tempi, ore, mesi e settimane. Le nuove tecnologie ci impongono un ripensamento nel modo di fare scuola e questo momento storico rappresenta un’occasione preziosa per farlo.
In conclusione, ecco i punti principali che mi preme siano chiari e condivisi:
- La nostra posizione al confine tra due epoche rende particolarmente polarizzata l’analisi di opportunità e rischi del digitale;
- L’apprendimento è condizionato da molti fattori, occorre la necessità di non attribuire al digitale eccessive responsabilità sia in positivo che in negativo;
- Decidere per l’ostracismo digitale nella scuola sarebbe un atto di autolesionismo con il rischio di un’auto-condanna della scuola stessa all’inattualità;
- Cambiamenti nell’economia del pensiero e delle pratiche cognitive sono evidenti, ma più opportunamente attribuibili alla velocità che abbiamo proposto come vera categoria interpretativa della nostra società e della nostra cultura. Il digitale è un fattore di amplificazione della velocità, non ne è la causa;
- Quando le tecnologie vengono importate nella scuola occorre accompagnarne l’uso con consapevolezza pedagogica, al di là di schemi tradizionali spesso logori ed incapaci di accertarne le reali potenzialità.
Questo suggerisce una possibile indicazione di intervento che potrebbe essere costruita su due piste di lavoro:
- Promuovere un’educazione che sappia alternare la lentezza alla velocità. Lavorare in velocità è una competenza, consente di sopravvivere nelle organizzazioni ed è inevitabile se si vuole essere tempestivi nello svolgimento dei propri compiti. Chiede di promuovere il pensiero breve e il micro-learning. D’altra parte la lentezza è funzionale alla possibilità di sviluppare apprendimenti significativi (Ausubel), chiede di ripensare il curricolo sacrificando la quantità delle informazioni da fornire alla esemplarità dei nuclei fondanti del sapere, sviluppa il gusto per l’acquisizione conoscitiva, favorisce l’ascolto attivo.
- Educare un cervello bi-alfabetizzato. Non bisogna perdere le competenze che sono legate al vecchio alfabeto, alla cultura letteraria: il pensiero sequenziale, la capacità argomentativa, i nessi causali, le competenze discorsive e narrative. Significa però anche sviluppare le nuove competenze, quelle legate ai nuovi alfabeti: il pensiero topologico, l’uso generativo dell’analogia, le competenze previsionali, l’adaptive decision making, il surfing cognitivo, la capacità di alternare immersione e distanziamento.
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