Neurodidattica, ecco i trucchi per imparare con il cervello: questo, il titolo dell’articolo del Professor Pier Cesare Rivoltella, direttore scientifico di Cremit, comparso su Avvenire. La ricerca neuroscientifica, con le sue tecniche di “teaching brain” e “learning brain”, rappresenta una nuova frontiera per l’insegnamento e l’apprendimento.
Già autore del libro Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende (Raffaello Cortina, 2011), in cui delineava ciò che effettivamente le neuroscienze possono suggerire a chi ha a che fare con l’arte di insegnare, il professore inizia questo suo articolo descrivendo i vantaggi della “pausa attiva”, soprattutto per la scuola primaria: si tratta di proporre ai bambini un’attività alternativa che sia in continuità con la didattica, così da farli rilassare senza distrazioni controproducenti; i fondamenti teorici legati a questa pratica sono i “dispaced learning” (apprendimento intervallato) e derivano dagli studi delle neuroscienze cognitive sui ritmi di attenzione e i processi di memorizzazione.
“Il nostro cervello, dicono i neuroscienziati, ha bisogno di andare in pausa periodicamente. E questo succede in particolare quando il numero di informazioni nuove che si stano introducendo è eccessivo. In questo caso l’ippocampo, una parte della corteccia che svolge una funzione fondamentale nella memorizzazione, va in sovraccarico e, di conseguenza, in situazione di stallo.”
Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia all’Italia si conducono tutt’oggi degli esperimenti di incontro fra le neuroscienze e la scuola all’interno di un nuovo campo di ricerca denominato, appunto, neurodidattica (o neuroeducazione, che dir si voglia): “esso si occupa di due grandi ambiti di ricerca e di intervento che hanno a che fare con il cervello dell’insegnante (Teaching Brain) e con gli apprendimenti degli studenti (Learning Brain)”.
- – Dal lato insegnante, gli elementi di maggiore interesse sono l’uso del corpo e della voce in situazione e il livello di stress nel dispendio energetico della performance; su quest’ultimo argomento ha condotto una ricerca Vanessa Rodriguez dell’Università di Harvard, dimostrando un aumento del benessere a livello biochimico nei docenti che si prendono cura dei propri allievi.
- – Dal lato studente, gli studi condotti per la maggior parte attingono alle basi neurofisiologiche dell’apprendimento e spaziano dalla ripetizione e memoria a lungo termine, all’esperienza legata alle emozioni, fino all’imitazione con la scoperta dei neuroni specchio da parte dell’équipe Rizzolati dell’Università di Parma, secondo cui l’osservazione e l’imitazione corporea sono propedeutiche all’azione stessa; interessanti anche le ricerche condotte sul ritmo sonno-veglia, governato da un rilascio di melatonina ritardato nei ragazzi rispetto agli adulti, e sui processi di motivazione e decisione, che negli studenti sono determinate soprattutto dal circolo di dopanima e serotonina (neurotrasmettitori preposti al piacere).
Nelle conclusioni, il Prof. Rivoltella indica due strade possibili per la scuola: applicare semplicemente nella didattica le conoscenze scientifiche apprese dalle neuroscienze (approccio anglosassone, da lui definito alquanto riduzionistico), oppure, e sembra questa la via migliore, continuare ad informarsi e a formarsi su questi temi per poi riprogettare insegnamento e apprendimento in maniera autonoma e responsabile, “ricordandosi che l’educazione è soprattutto relazione”. Qui, l’articolo completo con tutti gli approfondimenti e le curiosità del caso.