Smartphone a scuola: una questione aperta

di Alessandra Carenzio

Smartphone a scuola: una questione aperta

Smartphone a scuola: una questione aperta


Riportiamo l’articolo di Chiara Baldi, uscito sabato 14 dicembre su LaStampa.it.

L’articolo raccoglie le parole di Pier Cesare Rivoltella, direttore del CREMIT, in merito alla presenza dei dispositivi mobili in classe, nello specifico gli smartphone. Il dibattito, in quei giorni, è stato percorso da numerosi articoli, per la stessa testata in versione cartacea. Si tratta evidentemente di una questione aperta che suscita opinioni diverse e divergenti.

Rivoltella: Chi dice ‘fuori gli smartphone dalla scuola’ vive fuori della contemporaneità
Il direttore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia (Cremit) dell’Università Cattolica di Milano: l’obiettivo è fare in modo che sia mezzo per diventare cittadini

«Chi dice ‘fuori gli smartphone dalla scuola’ vive al di fuori della contemporaneità. Il problema non sono i device ma il modo in cui questi vengono usati». Il professor Pier Cesare Rivoltella, direttore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia (Cremit) dell’Università Cattolica di Milano dal 2006 si occupa di “media education”, ovvero insegna ai più giovani come usare le novità tecnologiche per diventare cittadini. «Il problema se smartphone e tablet siano o meno dannosi è malposto. Come società consapevole dovremmo invece interrogarci sui dati che regaliamo ai grandi provider».

In che senso, professore?
«Pensiamo ad esempio al nuovo settore merceologico appena nato, quello dell’Internet of Toys che mette sul mercato prodotti per la primissima infanzia e che raccolgono i dati dei bimbi. Se continuiamo a interrogarci su quanto usano i ragazzi i loro “telefoni intelligenti”, i grandi player saranno solo contenti, perché è lì che vogliono che sia la nostra attenzione. Invece dobbiamo chiederci come li usano».

Come si può fare in modo che gli adolescenti abbiano consapevolezza dell’uso che fanno dei vari device?
«Attraverso la media education. Come Cremit siamo nati nel 2006 in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia e da allora lavoriamo con le scuole proprio per introdurre l’educazione all’uso dei nuovi strumenti tecnologici. Per esempio, in questo momento portiamo avanti una sperimentazione in 15 istituti lombardi, con ragazzi dalla prima elementare alla terza media: l’obiettivo è fare in modo che lo smartphone passi dall’essere mezzo di svago a mezzo per diventare cittadini».

Cosa si perde a non usare uno smartphone o un tablet a scuola, durante le lezioni? «Si perde la possibilità di far sentire i ragazzi figli del loro tempo. Una scuola che oggi scegliesse di bandire quei dispositivi sarebbe una scuola che sceglierebbe di fare un passo indietro. I media nelle aule devono starci perché dobbiamo volere una scuola contemporanea, che dia agli studenti tutti gli strumenti per comprendere la loro contemporaneità. E questo la scuola non può permetterselo».

Eco diceva che i «social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». Cosa risponde?
«Se è per questo, Cavour avrebbe esteso il diritto di voto a non più del 2 per cento della popolazione… È il classico tema della tradizione liberale, che vorrebbe che si esprimessero nello spazio pubblico solo coloro che ne hanno la posizione. Ma cosa vuol dire? Che il capitale culturale è pregiudiziale? E quindi siccome è indissolubile da quello economico, solo chi ha censo può accedere alla cultura? Noi non dobbiamo impedire alle persone di stare sui social ma dobbiamo insegnare loro a starci senza per forza liberare tutto quello che passa loro per la testa».

C’è un modo per farlo?
«Certo. Dobbiamo stimolare la riflessione critica delle persone, la sensibilità etica, far capire, soprattutto ai ragazzi, dove si pone il senso del limite. Prima di postare qualunque cosa bisogna chiedersi “questo post lede qualcuno? La mia comunicazione è rispettosa?”. L’hate speech, di cui oggi ci piace tanto parlare, nasce proprio dal mancato sviluppo di questa responsabilità e dalla mancata consapevolezza che un post può provocare grandi danni se fatto in preda all’istinto. Con la media education si mette una “soglia” tra l’istinto e l’atto del postare in cui si creano le condizioni per non realizzare atteggiamenti considerati sconvenienti».

Chiara Baldi, LaStampa.it, 14 dicembre 2019

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