La comunità che cura. Trovare le parole giuste, condividere la propria storia, stare in relazione

di redazione

La comunità che cura. Trovare le parole giuste, condividere la propria storia, stare in relazione

La comunità che cura. Trovare le parole giuste, condividere la propria storia, stare in relazione


di Cristina Barberis Negra, Coautrice di “Sorrisi in Rosa”, Fondazione Humanitas per la Ricerca

Giovedì 20 febbraio, nell’ambito di AnthroDayMilano, si è svolto il seminario di studi “Costruire il futuro, ripensare alla malattia” coordinato da Michele Filippo Fontefrancesco. Il seminario ha visto un tavolo eterogeneo di docenti (per CREMIT è intervenuta Simona Ferrari), ricercatori ed esponenti dell’associazionismo e del volontariato. 

Tre le parole chiave, emerse dagli interventi di tutti:

  • linguaggio,
  • storia personale,
  • cura, intesa come atto sociale e non solo personale (non cure ma care).

In una società, e in un tempo, che ci vuole e ci dipinge come individualisti, ciò che è emerso dalle narrazioni di tutti i relatori è stato il bisogno di fare rete, di rimanere connessi, di raccontare, di condividere.

Lo stigma, la vergogna di una malattia, che diventa allontanamento sociale è il primo tabù da eliminare sia per la persona malata sia per il caregiver. La malattia, grazie ai nuovi linguaggi supportati dal digitale e grazie alla volontà e all’impegno di tante associazioni di pazienti, diventa percorso di vita, diventa accadimento e si allontana dall’identificazione patologia-persona.

Molto c’è ancora da fare ma la direzione è presa. La persona deve essere messa al centro della cura in tutti i suoi aspetti umani e fragili. Il paziente deve essere preso in cura nella sua interezza e complessità: dal corpo allo spirito, con un’attenzione olistica alla sua sfera fisica, emotiva, sociale e relazionale.

È importante trovare prima di tutto le parole corrette, nominare la malattia e la reazione ad essa, raccontarsi e raccontare per fare ordine, per ritrovarsi nella propria identità di essere umano, trasformato, diverso, ma non identificato nella patologia.

Trovare le parole, dirle e condividerle. Integrare il piano emotivo con quello cognitivo, raccontare la malattia e trasformarla in patrimonio collettivo, facendola diventare cura. Il digitale ci agevola in questo processo, proponendo linguaggi e metalinguaggi che includono – anche a distanza – e rendono l’esperienza fruibile agli interlocutori più diversi.

Non più un linguaggio della malattia, ma un linguaggio di cura che sappia far dialogare quello medico-scientifico con quello emotivo e che coinvolga l’intera comunità in un processo di cura. La persona malata non deve sentirsi un’isola, anzi l’isolamento è spesso una concausa dell’aggravarsi di una malattia specie delle patologie degenerative.

Allora ecco l’importanza di costruire comunità compassionevoli, comunità amiche (ricordiamo l’esperienza Dementia Friendly Italia raccontata dalla Federazione Alzheimer Italia), di creare connessioni tra pari, tra persone che hanno attraversato la stessa esperienza di malattia (il progetto Sorrisi in Rosa di Fondazione Humanitas); di assaporare la vita nella sua interezza, nonostante la malattia (l’esperienza di Slafood ODV); di uscire dall’isolamento e di restituire dignità al malato cronico (come emerso dalle testimonianze di APM Parkinson Lombardia); di favorire una conoscenza più diffusa e compresa (come evidenziato da Huntington Onlus).

In una civiltà che si definisce fluida, iper-connessa h24, abbiamo bisogno, per guarire o anche solo per stare meglio, di riappropriarci della nostra umanità e del nostro innato bisogno di essere in relazione, dialogando, prendendoci per mano, riscoprendo il calore di braccia e di parole amiche. Il digitale può essere facilitatore, amplificatore, decodificatore di un bisogno tutto umano di esistere pienamente fino all’ultimo giorno di vita, non un sostituto della relazione umana, ma un prezioso alleato.

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