Il numero di ottobre della Rivista Essere A Scuola propone di indagare tre aspetti importanti nella pratica didattica:
- la progettazione di una lezione;
- il metodo scientifico;
- la costruzione condivisa della conoscenza.
Condividiamo qui l’editoriale di Pier Cesare Rivoltella, il sommario del secondo numero e la recensione del testo Gli EAS tra didattica e pedagogia di scuola. Il metodo, la ricerca a cura di Gianna Cannì.
Gli EAS: metodo, cultura e professione di Pier Cesare Rivoltella
Volge ormai al termine l’anno del decennale del metodo EAS. Vide la luce nel 2013, in un libro, Fare didattica con gli EAS. Episodi di Apprendimento Situato, che si può considerare un compromesso tra il saggio di didattica – che disegna il profilo di una teoria generale dell’insegnamento – e il manuale operativo per l’insegnante – che suggerisce prospettive di lavoro e fornisce materiali e strumenti per la progettazione e l’attività in classe. Le due parti – la teoria e gli strumenti – convivevano nello stesso libro: la teoria nei capitoli, scritti da me; gli strumenti nelle numerose schede che lo componevano, affidate a un gruppo di collaboratori. Un libro corale, che restituiva il senso di una comunità di ricerca come di fatto è stata la comunità del CREMIT, il centro di ricerca che ho immaginato, fondato e diretto dal 2006 a oggi in Università Cattolica. Lo stesso senso di comunità – come puntualmente annota Gianna Cannì nella sua bella recensione in questo numero della nostra Rivista – si ritrova nel volume celebrativo di questo decennale: Gli EAS, tra didattica e pedagogia di scuola. Teoria e metodo. La domanda alla base del libro è la stessa che Benedetto Croce si faceva rispetto alla filosofia di Hegel: cosa è vivo e cosa è morto dell’EAS?
L’importanza del metodo
Stiamo vivendo una stagione contraddittoria nel dibattito sulla scuola. Mentre il PNRR, attraverso il piano Scuola 4.0, sta incoraggiando l’innovazione, si respira un clima di nostalgico ritorno a un passato in cui la scuola sì che era seria, perché centrata sui contenuti e non ancora rovinata dalla “fuffa pedagogica”. Non è chiaro in questo dibattito se innovazione e ritorno al passato possano convivere. Soprattutto non si capisce perché la qualità debba essere trovata nei contenuti e tutti i mali nelle istanze della pedagogia. O meglio, si capisce, ma occorre sbrogliare la matassa che altrimenti rischia di favorire generalizzazioni e, alla fine, confusioni.
Può esistere un contenuto senza il metodo nell’insegnamento? Si può trasmettere o condividere un contenuto senza porsi il problema di farlo comprendere? Posso ignorare l’età del mio destinatario, le sue basi culturali, il suo stile di apprendimento se voglio risultare efficace, ovvero se voglio che il mio insegnamento abbia successo? La risposta, come si capisce, è no. La metodologia didattica è strutturalmente legata alla trasmissione del contenuto: non c’è l’uno senza l’altra. Anche quando non mi pongo esplicitamente il problema, anche quando non ho progettato il mio intervento, la mia attività è sorretta da una determinata idea di cosa sia l’insegnamento e di come lo si debba condurre. Bruner parlava al riguardo di “pedagogie implicite”. Come nel caso dell’élenkos aristotelico, sembra non esserci via d’uscita: anche quando sosteniamo che l’insegnamento è fatto solo dai contenuti e che non ha bisogno della pedagogia, è una pedagogia implicita a farcelo sostenere. E allora perché questo accanimento nei confronti della “fuffa pedagogica”? Il sospetto è che il bersaglio non sia la pedagogia, ma i pedagogisti, che spesso oggettivamente prestano il fianco a questo tipo di critica a causa di scritti fumosi e inconcludenti e di affermazioni non adeguatamente sostenute dalla ricerca.
L’EAS, da questo punto di vista, intende rappresentare una proposta seria. Il suo obiettivo è di riaffermare l’importanza del metodo suggerendo in questo modo una certa idea della progettazione, della comunicazione didattica e della valutazione. E di questo il libro cerca evidenze proprio nella ricerca, lavorando sulla presenza del metodo nelle riviste scientifiche e di aggiornamento professionale come nella pratica degli insegnanti.
Cultura e attualità
Ci sono almeno due idee (tra le tante ben richiamate da Gianna nella sua recensione) che meritano di essere rievocate nella lezione degli EAS.
La prima è il riferimento al lavoro culturale. Il metodo EAS si richiama esplicitamente alla prospettiva del Learning by Design. In questa prospettiva il lavoro di scuola consiste nello smontare e rimontare gli oggetti culturali. La classe è un laboratorio, proprio come la lezione di Freinet e di altri maestri ha indicato. Spesso mi capita di riflettere con gli insegnanti su come, quando si vuole indicare il carattere ripetitivo e poco originale della prestazione di uno studente, si usi l’aggettivo “scolastico”. Parlare di “sapere scolastico” significa riferirsi a qualcosa di ordinario, compilativo, sicuramente non eccezionale. Quanto lontana è questa idea da quello che il “sapere di scuola” dovrebbe essere! Nella corretta accezione la classe è uno spazio in cui gli studenti lavorano sulla cultura, producono cultura. Si tratta di una consapevolezza molto chiara nel lavoro per EAS.La seconda idea è legata all’attualità. Se si sta alle indicazioni di Cope e Kalantzis (2000), il punto di partenza del lavoro di smontaggio delle forme culturali è di individuare nel mainstream della cultura ciò su cui si intende lavorare. L’innesco del lavoro didattico è l’attualità, sempre: una notizia di cronaca, un fatto che riguarda uno studente o la comunità cui la scuola appartiene. È quello che Freinet chiamava il “tema vivente” e che aggancia la scuola alla vita. Il movimento della didattica è un movimento di andata e ritorno dall’attualità alla classe e dalla classe di nuovo all’attualità. In questo modo la scuola riesce a risultare contemporanea rispetto al proprio tempo e a comporre le istanze dell’innovazione e della trasmissione culturale.
L’EAS come organizzatore professionale
Adottare un metodo non significa solo fare proprie delle tecnicalità, ma pensare la scuola in un certo modo. Questa almeno è l’ambizione del metodo EAS: fornire agli insegnanti e ai dirigenti l’opportunità di pensare la scuola. In che senso?
Più volte ho avuto modo di dire che lavorare per EAS porta a ripensare in profondità il modo in cui l’insegnante progetta, comunica e valuta.La progettazione per EAS è esplicita e centrata sulle attività, i contenuti vengono dopo. Inoltre, dato che un EAS – come capita in tutte le didattiche attive – prende tempo, occorrerà selezionare con cura quali contenuti affrontare, sacrificandone altri. Il curricolo per EAS è breve, significativo, attivo.
La comunicazione didattica quando si lavora per EAS riduce vistosamente il tempo di parola dell’insegnante. L’insegnante parla di meno e parla dopo. Vuol dire educarsi a essere sintetici e chiari, suggestivi anche se mai esaustivi. Vuol dire lasciare che la classe anticipi, avanzi delle ipotesi, si ponga problemi e provi a risolverli, sbagli. L’insegnante interviene alla fine, riprende i temi, corregge gli errori, introduce i quadri concettuali. È la lezione a posteriori di cui parlava Freinet.Infine, la valutazione per EAS è una valutazione formatrice e diffusa. Fatta di tanti microelementi valutabili, la valutazione non si distingue dall’attività didattica ma finisce per coincidere con essa (assessment as learning). Questo comporta che nella classe in cui si lavora per EAS, se si sceglie di valutare con gli EAS in maniera coerente, ci si doti di un portfolio.
Visto che progettare, comunicare e valutare sono i tre verbi-chiave dell’insegnante, nella misura in cui lavorare per EAS porti a ripensarne il significato si può allora dire che davvero gli EAS siano un organizzatore professionale, ovvero uno strumento attraverso il quale riflettere in profondità sul significato della scuola e dell’essere insegnanti.
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