di CREMIT
Il CREMIT dalla sua fondazione si impegna per sostenere docenti, genitori e istituzioni scolastiche, educando alla cittadinanza digitale, all’uso didattico della tecnologia e ad acquisire consapevolezza rispetto ai consumi mediali. In queste settimane il dibattito attorno al digitale si è riattivato con toni molto forti e a tratti eccessivamente semplificatori, motivo per cui proviamo a sintetizzare alcuni aspetti che riconosciamo come interessanti.
Il primo è legato alla scelta dello smartphone – che i regolamenti scolastici già escludono dalla vita di classe per usi non educativi e didattici – che rappresenta oggi una delle maggiori fatiche educative che scuola e famiglia sono chiamate ad affrontare. La circolare considera PC e tablet come dispositivi ammissibili. E’ vero, molte scuole hanno dotazioni adeguate: tablet, PC (almeno per il docente) e LIM sono parte delle aule in diverse realtà, ma prevedono un investimento importante in termini di allestimento, aggiornamento e gestione che non tutti monitorano. E soprattutto, non tutte le realtà sono attrezzate in termini culturali: non è questione di strumento, ma di design didattico, di approccio e questo lo è da sempre, ben prima degli smartphone. Vietando lo smartphone, spostiamo il problema di qualche anno (o di qualche ora, nell’extrascuola).
Il secondo è legato ai vantaggi (lo ribadiamo: con un uso accompagnato e mediato da professionisti dell’educazione e della didattica) che lo smartphone – come dispositivo mobile – consente. Ne vediamo almeno tre. Il primo è relativo all’accessibilità del dispositivo, che diventa per tutti un alleato della didattica; il secondo è la versatilità didattica, consentendo a docenti e discenti di svolgere attività diverse (accedere a risorse raccolte dai docenti, esprimere opinioni personali su cui tornare riflessivamente, produrre artefatti, condividere stimoli, per esempio); il terzo è la presenza del device nelle vite dei bambini e dei ragazzi (anche quando non si tratta di dispositivi personali), consentendo di approcciarsi alla dimensione alfabetica, espressiva ed etica legata alla presenza dei dispositivi nel quotidiano. In breve, educare alla cittadinanza, partendo dallo strumento che tutti – o quasi – conoscono e utilizzano, è certamente un’occasione importante che consente di riflettere sui consumi e sulle proprie posture (i propri repertori). Il PC non è sempre un “ospite fisso” nelle case dei più piccoli (lo è però lo smartphone, usato spesso dagli adulti di riferimento).
Il terzo aspetto è legato alla gradualità: parlare di smartphone e dispositivi mobili nella scuola dell’infanzia e poi primaria non significa lasciarli in mano ai bambini senza accompagnamento, senza mediazione, senza un’attenta progettazione delle situazioni. Al contrario, significa sostenere un approccio critico, creativo, “gentile” che i bambini e le bambine possono adottare anche fuori dalla classe. Nel segmento 0-6, ad esempio, il tema del digitale è stato ripensato in maniera radicale, considerando le esigenze specifiche dei bambini e coinvolgendo diverse figure impegnate nella cura. In questa fascia, la mediazione è centrale, come anche la predisposizione di setting capaci di attivare, di produrre, di lavorare insieme, di creare insieme, non in una logica isolata e one-to-one e non in una logica passivizzante e spettatoriale. La questione dell’educazione al digitale dai primi anni di scuola è funzionale alla costruzione, per gradi, di competenze progressive, senza demonizzare o mitizzare, scegliendo quando e dove è utile usare lo smartphone e quando non lo è (la parola chiave è alternanza).
Il quarto aspetto è associato al tema del divieto che è sempre stato oggetto di attenzione e di scontro: la “pedagogia del contratto”, legata al lavoro di Meirieu, ci racconta un altro modo di vedere la risposta dell’adulto ai media (da Goldrake alle cuffie per ascoltare la musica, dalla tv ai social media), non basato su luddismo ed estromissione, ma su una postura pedagogica attenta e per questo complessa, non frutto di improvvisazione, ma di studio e di auto-riflessione. Questo discorso si apre anche alla famiglia, che è certamente un nodo chiave del dibattito: molte famiglie faticano a confrontarsi con lo smartphone, e faticheranno ancora di più se decidiamo di posticipare la riflessione alla fine della scuola secondaria di primo grado. Pensiamo alle iniziative di costruzione – tra casa e scuola – di contratti pedagogici dal basso, basati sulla concertazione, sullo scambio di pratiche, sulla possibilità di vedere diversi lati della questione digitale per tutte le famiglie.
In questi anni abbiamo lavorato molto con gli smartphone in classe, formando i docenti alla progettazione di setting didattici adeguati, altrimenti è chiaro che si tratta solo di uno strumento che distrae e porta “fuori” dalla didattica, e su molti altri progetti lavoreremo a partire da settembre. Valorizzare l’adulto è sempre decisivo. Sarebbe importante non ridurre il tema del digitale alla presenza/assenza di un dispositivo, ma alla valorizzazione della professionalità dei docenti, alla capacità di progettare e di aggiornarsi. Tra di loro, molti hanno da tempo investito in percorsi che li hanno portati a costruire azioni significative, fin dalla scuola dell’infanzia, lavorando sul metodo, sull’attivazione e sulla mediazione. Un peccato non capitalizzare e valorizzare queste esperienze, tacciandole di essere inammissibili anche se hanno portato frutti.
Su questi temi nei prossimi mesi proveremo a tornare con suggerimenti, piste di lavoro, progetti e iniziative-ponte, pur superando la logica della contrapposizione che sembra, adesso, molto viva. La circolare ci ricorda che occorre recuperare un’idea culturale del digitale e per sostenere questa idea bisogna far dialogare le figure che si preoccupano della crescita dei bambini, ben prima dell’entrata nella scuola secondaria di secondo grado.
Le preoccupazioni rispetto a un uso improprio – in termini di tempo come di correttezza dei comportamenti online – sono da prendere in seria considerazione; sono rischi reali, dall’abuso del tempo d’uso fino alla dipendenza ai fenomeni della cyberstupidity (dove il digitale è una delle componenti) come l’odio online, il sexting, il cyberbullismo, le fake news, le truffe online. Proprio per questo, la scuola, in quanto più importante agenzia educativa formale del Paese, non può “chiamarsi fuori” da una presenza così impattante nelle vite dei minori.
La scuola è il luogo per imparare a stare nella contemporaneità e non possiamo perdere questa occasione di presenza, accompagnati da professionisti dell’educazione. Il divieto non è la risposta educativa a un disagio anche dell’adulto o alla necessità di gestire dispositivi. Vietando l’uso didattico si rimanda la questione – che è prima di tutto educativa – all’extrascuola, solo alle famiglie e ai momenti di solitudine educativa, dove spesso è nato il disagio. Il rischio è di creare un maggiore divario in contesti diversi, di ampliare la forbice delle disuguaglianze: nei progetti condotti in questi anni con le scuole, i dati relativi al miglioramento osservato nei bambini e nelle famiglie sono legati in particolare a situazioni di disagio iniziale maggiore.