Articolo di Alessandra Carenzio e Stefano Pasta pubblicato su Avvenire il 14 settembre 2024
Formare all’uso consapevole anche con l’esempio e le parole.
Proibire sposta solo il problema, la differenza la fanno gli adulti.
In un vecchio spot di uno dei grandi player del mercato digitale, gli abitanti del pianeta venivano sopraffatti da un crash generale delle app, un’“Apocalisse” (o App-ocalisse come si legge nel titolo originale) nella quale nulla funzionava. Non più mappe per orientarsi, non più motori di ricerca per informarsi, nessun cartone animato a intrattenere i bambini, nessuna app per monitorare i parametri di salute, nessun sistema di messaggistica istantanea. Una situazione che mandava in stallo tutte le attività e la tenuta mentale dei protagonisti. Pur nell’ambito dello spot, il racconto mappava – e mappa – molto bene scene di “ordinario quotidiano”. Le relazioni e gli apprendimenti sono sempre più onlife, con la tecnologia che entra “in vita” e con l’online e l’offline che si rimandano continuamente più che escludersi. Non è per forza un fatto positivo, ma sicuramente è un trend delle vite dei più e meno giovani; le categorie che Eco nel 1964 usava per la televisione – gli apocalittici e gli integrati, coloro che vedono solo gli aspetti negativi o solo positivi – continuano a essere valide. Semplificando e polarizzando il dibattito.
Al Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia (CREMIT) dell’Università Cattolica lavoriamo da anni promuovendo l’approccio media-educativo. Significa educare a “guardare dietro” ai dispositivi tecnologici e ai prodotti mediali, svelando schermi per nulla trasparenti, consapevoli dei rischi (oltre che delle opportunità), degli interessi di parte e del mercato. Appunto, educando.
Al contrario, intervenire eliminando gli smartphone dalle diete mediali dei bambini e dei ragazzi non ci sembra la soluzione. Sposta solo il problema, forse rassicura e illude (in questi anni WhatsApp era vietato ai minori di 16 anni…!), ma non risolve. Con questo non si vogliono negare le problematiche legate ad un accesso senza attenzione e nemmeno si intende mettere nelle mani dei piccoli (soprattutto da soli) strumenti che non saprebbero gestire.
La petizione sul divieto dello smartphone arriva dopo la circolare di luglio del Ministro dell’Istruzione sul divieto di utilizzo degli stessi smartphone in classe, anche per fini didattici, fino alle secondarie di I grado. Anche qui: siamo sicuri che la più grande agenzia educativa del Paese, la scuola, debba “chiamarsi fuori”?
La scuola dovrebbe piuttosto promuovere l’accompagnamento da parte di figure adulte autorevoli all’uso (critico e consapevole) dei dispositivi, delle opportunità e dei rischi del digitale. Servono capacità di lettura dei fenomeni e disponibilità ad affiancare il minore. Per prevenire gli effetti negativi del digitale, più che se il primo smartphone si compri o consegni a 13 o 14 anni, conta che le figure adulte (genitori e insegnanti) affianchino bambini e ragazzi.
La petizione ha certamente un merito, quello di porre il tema sotto la luce dei riflettori, anche grazie ai firmatari illustri. Nel lavoro del Cremit nei contesti educativi – dalla scuola ai centri aggregativi, dalle cooperative sociali agli oratori – sottolineiamo che la differenza è spesso fatta dagli adulti, dalla fragilità che incarnano, dall’incapacità di gestire il rapporto con i dispositivi (la classica immagine del pranzo con ciascun membro della famiglia che digita sul proprio schermo). O, per contro, dalla capacità di “addomesticare gli schermi”, come con adulti significativi (genitori, insegnanti, nonni, educatori) che educano all’autoregolazione, all’alternanza tra digitale e analogico, all’uso consapevole. Con l’esempio più che con le parole. Difficile? Sì, e apparentemente meno rassicurante di un divieto. Ma è la via della responsabilità, affascinante e impegnativa al tempo stesso, che l’approccio educativo propone di percorrere.
Infine una piccola nota: nella petizione non si parla delle grandi piattaforme. Occorre richiamarle a una maggiore responsabilità, con gli interventi che l’azione pubblica prevede, sostenendo il positivo protagonismo delle Istituzioni europee sul tema.