Nella sezione “A scuola con gli EAS”, l’Editrice Morcelliana-Scholé ha appena pubblicato il testo “EAS e grammatica. Le nuove pratiche linguistiche” di Giuseppe Pelosi.
L’altro volume pubblicato in vista dell’EAS DAY 2019 è “Fare filosofia con gli EAS” di Fabio Fiore e Giuseppe Marrone.
Con questi tre punti Pelosi riassume le idee intorno a cui il testo si struttura:
1) Grammatica alla scuola dell’obbligo non è una materia a sé stante, ma il sostrato di qualsiasi attività linguistica si svolga. Dovrebbe pertanto essere tolta dalla sua ora di lezione dedicata e inserita invece a margine di tutte le ore di lezione di lingua. Qualsiasi argomento venga svolto in classe è occasione di riflessione linguistica, dunque di lezione di grammatica. Togliere la grammatica dal suo momento dedicato e mantenerla innervata nelle varie attività didattiche contribuisce a restituire la disciplina alla sua dimensione autentica di strumento che aiuta ad esprimersi meglio, e non di luogo di vaghe e astratte esercitazioni mnemonico-teoriche.
2) Un noto adagio recita: «val più la pratica della grammatica». Si deve operare per una grammatica “attiva”, “applicata”, che renda finalmente l’adagio inattuale e inesatto: la grammatica è pratica della lingua corretta. Conviene annullare la dicotomia dell’adagio insegnando grammatica in un modo che superi il tradizionale modello di lezione basato su definizione-esempio-esercizio, che rimane un modello astratto e teorico, per favorire la pratica linguistica e a seguire la riflessione metalinguistica.
3)Per ottenere questo obiettivo risulta particolarmente funzionale il metodo EAS, che ha il suo nucleo nella fase operativa dello studente, più che nella cornice preparatoria dell’insegnante. Con la sua strutturazione tripartita, il metodo offre tre valori aggiunti: cambia il ruolo dell’insegnante, da dicitore di definizioni a bussola (orientatore) di scoperte linguistiche; cambia il ruolo dell’alunno, da ripetitore di formule a alchimista (miscelatore e creatore) del linguaggio; cambia il ruolo della disciplina, da riempitivo del palinsesto scolastico, senza quasi ricaduta sull’abilità linguistica, a laboratorio avanzato di comunicazione fortemente illocutorio.
Pier Cesare Rivoltella, ideatore del metodo EAS, firma la “Lezione a posteriori” che conclude il libro. La riportiamo qui per Cremit.it.
Lezione a posteriori
La grammatica, a scuola, è sempre stata parente stretta della matematica. Condivide con essa il formalismo astratto, l’impostazione prescrittiva, la difficoltà a essere ricondotta alla vita di tutti i giorni. Si è sempre fatto fatica sull’eserciziario di grammatica, in ossequio a un’etica dell’applicazione fiduciale che ti veniva inculcata come un mantra fin da piccolo: non importava che tu capissi, serviva che imparassi. E l’importanza dell’apprendimento a tutti i costi era motivata dalla convinzione che senza una perfetta conoscenza della grammatica della lingua italiana sarebbe stato tempo perso provare a imparare le lingue classiche o una lingua straniera. Quando tutto questo si trasferisce poi all’interno di classi che “fanno fatica” o, come oggi, in classi multiculturali in cui l’italiano non è per tutti L1, come si capisce la difficoltà aumenta, i problemi si moltiplicano.
Parte da questa consapevolezza fenomenologica la riflessione di Giuseppe Pelosi in questo libro. È la riflessione di un insegnante esperto e innovatore, uno di quegli insegnanti che avresto voluto avere o che ti augureresti per i tuoi figli: assolutamente tecnologico, tra i primi in Italia a servirsi del podcast nella didattica, ma allo stesso tempo colto e informato, Pelosi fa tesoro anche della sua formazione teatrale che lo vide vivere una breve parentesi giovanile da attore professionista. Lo conobbi in occasione di una formazione insegnanti, tanti anni fa. Lo guardavano tutti con grande curiosità, senza accorgersi che stava recitando: era l’incipit di Moby Dick di Melville, lui il capitano, gli altri la sua ciurma. E Radio Pequod era (è) il nome del suo vlog di classe con i podcast dei suoi studenti.
Giochi linguistici
Il “secondo Wittgenstein” è noto per la sua teoria dei giochi linguistici. Ogni lingua, ogni gergo, è come un gioco, come la dama o gli scacchi: ci sono i pezzi e ci sono le regole per muoverli. Se si gioca a dama con le regole degli scacchi non va bene. Questa idea serve al fiosofo austriaco per introdurre il concetto di uso linguistico: le parole non hanno un significato in sé, ma solo ne acquistano uno in relazione al contesto entro il quale vengono utilizzate. Il significato delle parole, cioè, è l’uso che se ne fa all’interno di un determinato contesto.
James Paul Gee, diversi anni dopo Wittgenstein, da linguista che si occupa dei media digitali e degli apprendimenti, ribadisce la sua idea quando formula uno dei 39 principi dell’apprendimento efficace in fondo al suo libro What videogames have to teach us about teaching and learning [ N.R.
Il libro è stato tradotto in italiano con il titolo: Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, ed. Raffaello Cortina, Milano 2012]. Gee lo definisce il principio del significato situato e lo formula così: «I significati dei segni (parole, azioni, oggetti, artefatti, simboli, testi) sono sempre situati all’interno di esperienze incarnate. Non esistono significati generali o decontestualizzati. Significati di qualsiasi livello di generalità devono essere conquistati sempre dal basso attraverso esperienze incarnate». Si tratta di un’indicazione di metodo importante, perché spiega che far studiare le grammatiche in astratto significa fare qualcosa che non trova riscontro nella pratica della lingua: gli usi sono sempre contestualizzati.
Grammatiche implicite ed esplicite
Lo studio sistematico della grammatica (come lo studio tradizionale della matematica) prevede che prima si comprenda e si impari la regola e poi la si applichi. In questo modo si va incontro a due ordini di difficoltà. La prima è che si emancipano le regole dai contesti entro cui le parole vengono utilizzate rendendo tutto più complicato: decontestualizzare significa sempre produrre un carico cognitivo accessorio, ovvero aggiungere senza motivo difficoltà di apprendimento a difficoltà di apprendimento. La seconda è che per capire come applicare le regole occorrerebbe fare esattamente il contrario, ovvero partire dagli usi.
Quando si compra un videogioco non si leggono prima le istruzioni: si comincia a giocare. L’apprendimento delle regole del gioco (le grammatiche) è implicito: prima imparo a giocare e poi piano piano assegno valore e significato alle scelte di gioco. Vale la stessa cosa anche quando si deve spiegare a qualcuno un gioco di carte: niente teoria da applicare in un secondo momento, ma si gioca a carte scoperte facendo apprendere le regole attraverso il gioco stesso. In fondo è così che si apprende la propria madre lingua: non studiando regole ed eccezioni per poi applicarle, ma usandole quotidianamente.
Nella didattica di scuola tradizionale questa logica non è spesso compresa. E così l’insegnamento ha per oggetto le grammatiche esplicite condannando lo studente a fare fatica.
Grammatiche interne ed esterne
Il già citato Gee introduce nel suo libro anche una seconda distinzione che interessa per il nostro discorso: quella tra grammatiche interne ed esterne. Sono grammatiche interne le regole di un gioco linguistico (o di un campo semiotico come il videogioco): senza conoscere e impiegare queste regole non si può giocare. Sono invece esterne quelle grammatiche di secondo livello, quelle metaregole che i giocatori costruiscono al fine di usare al meglio e in maniera più efficace le grammatiche interne. Queste regole di secondo livello comprendono i trucchi, le scorciatoie, gli espedienti di cui il giocatore si serve man mano che diventa esperto e che sono il risultato degli scambi comunicativi e del confronto di esperienze così come avvengono nell’ambito di quello che Gee definisce il gruppo di affinità. Esso è costituito da soggetti che interagiscono tra di loro perché appassionati al gioco e si allestisce attorno al gioco stesso costruendovi sopra una tradizione e rendendolo un’occasione di elaborazione culturale. Sono gruppi di affinità i club, o le communities on line. Lo sono anche i “terzi spazi”, ovvero quelle zone di attivazione degli studenti che sfuggono, anche dentro la classe, alle regole di quel gioco assolutamente formale che è la scuola. Come la Dead Poets Society dell’Attimo fuggente, questi spazi producono apprendimento perché descolarizzano le discipline e attraverso la relazione e la passione fanno dell’apprendimento un’avventura culturale.
Gli EAS, nella proposta di Pelosi, servono proprio a questo: a rendere esperienziale l’appredimento della grammatica, a metterlo in contesto, a farne un oggetto di produzione culturale attivando la classe e organizzandola attorno alla grammatica come un gruppo di affinità.
Rimaniamo convinti che questa debba essere la strada per la scuola oggi e non il ritorno retrotopico a un passato dove “sì che si studiava” e, sì, “la c’era l’autorità”. Sono queste proposte demagogiche, spesso fatte da persone che non hanno mai messo piede in scuola e che sono talmente arroganti da permettersi di criticare senza conoscere. Pelosi in classe ci è stato e ci va. “Ci” sta, come direbbe Pennac: ci sta con un presente di incarnazione che lo rende vicino ai suoi studenti, anche quando fa grammatica. Una lezione semplice, in fondo. Basta aver voglia di applicarla.
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