La didattica al tempo della mediatizzazione. Tra retrotopia e innovazione

di Maria Cristina Garbui

La didattica al tempo della mediatizzazione. Tra retrotopia e innovazione

La didattica al tempo della mediatizzazione. Tra retrotopia e innovazione


‘Ripensare l’educazione nel XXI secolo: incontri per riflettere, proporre, agire’. Questo il titolo del ciclo di appuntamenti dedicati al presente e al futuro del mondo dell’Istruzione.

Oggi, venerdì 18 dicembre 2020, prende avvio un’iniziativa fortemente voluta dalla Ministra Lucia Azzolina, aperta al personale scolastico e, più in generale, anche a famiglie e ai cittadini per parlare di scuola. Gli incontri saranno animati da esperti nazionali e internazionali, tra cui il professor Pier Cesare Rivoltella, direttore CREMIT e presidente SIREM, che ha condiviso un intervento dal titolo “La didattica al tempo della mediatizzazione. Tra retrotopia e innovazione”.

Riportiamo qui la versione integrale del suo intervento.

La lezione dell’emergenza

Nello scorso mese di marzo, mentre la scuola faceva i conti con la necessità di passare alla Didattica a Distanza (DAD) e iniziavano a moltiplicarsi i webinar nei quali si provava a suggerire agli insegnanti come fare per affrontare questa brusca transizione, avevo commentato sul mio profilo in Facebook che se l’avessi saputo, invece di passare venticinque anni a scrivere di tecnologie didattiche, avrei provocato un contagio. Sì, perché il COVID aveva messo la scuola di fronte alla necessità di fare i conti con nuovi formati, nuovi modi di organizzare la didattica, una nuova stagione nel rapporto con le famiglie. Nessuno ha potuto chiamarsi fuori, far finta che il problema del cambiamento non esistesse: sono state diverse le risposte, ma in qualche modo ogni singola istituzione scolastica ha dovuto trovare una propria soluzione. Una specie di “palestra generale” per la scuola italiana.

Cosa si è quasi subito capito?

Anzitutto è risultato chiaro il ritardo culturale della scuola rispetto ai temi dell’innovazione. Tutti hanno provato a reagire ma con risultati molto diversi, producendo una situazione a macchia di leopardo. Isole di eccellenza alternate a zone d’ombra. Dove già esisteva una cultura del digitale, dove i dirigenti scolastici avevano già fatto i conti con il cambiamento, si sono creati dei veri e propri laboratori dell’innovazione. Ci si è confrontati con i linguaggi, i codici formali della comunicazione digitale, si sono fatti i conti con il metodo. Dove invece il problema non era stato affrontato con serietà, il registro elettronico ha spesso funzionato da sistema per la consegna dei compiti a casa, si è scoperta tardi la possibilità della didattica sincrona, si è replicata la scuola a casa, immaginando che la stessa organizzazione e la stessa didattica potessero essere portate in remoto.

Una seconda lezione è arrivata dallo stato delle connessioni, dal livello di diffusione sociale delle tecnologie digitali. Abbiamo scoperto di essere più indietro di quanto non si pensasse: molte famiglie non sono connesse; banda larga e internet ad alta velocità interessano solo circa il 40% delle scuole; a fronte di una diffusione capillare di cellulari e smartphone, computer e tablet non sono altrettanto diffusi. Ed è subito stato chiaro che il divario digitale era di solito sintomo di un divario culturale e quest’ultimo di un disagio economico e sociale. In tempo di riflessione sulle povertà educative, abbiamo avuto la certezza che i poveri sono sempre più poveri. E siamo tornati a interrogarci, a oltre cinquant’anni da Lettera a una professoressa, sulla reale capacità della scuola di colmare il gap, di ridurre le differenze, di non essere “un ospedale che cura i sani” (Scuola di Barbiana, 1967).

Una terza evidenza, chiarissima, è venuta dalla abbondantissima discorsivizzazione sociale. La scuola è diventata – o è stata ancor più che normalmente – un tema cruciale di discussione. Una discussione alimentata soprattutto nei social e dai webinar e fatta di contrasti e polarizzazioni.

I webinar hanno evidenziato grande disponibilità a condividere contenuti, mettere a disposizione esperienze: un grande movimento di solidarietà digitale in cui, però, hanno presto finito per sovrapporsi e mischiarsi qualità e superficialità in un processo di deriva in cui alla fine è diventato difficile orientarsi all’interno di un’offerta anche troppo abbondante.

La discorsivizzazione nei social ha reso palpabile, tranne poche eccezioni, la separazione tra  discorsi della ricerca e discorsi della piazza. La spiegazione viene dall’incapacità della ricerca a comunicare i suoi risultati fuori della propria arena di circolazione dei significati. Non è un problema di snobismo culturale, ma di formati e dispositivi di attesa. Le risposte della ricerca non sono mai semplici, perché la realtà è complessa, sfugge a modelli di spiegazione lineari, le variabili da considerare sono sempre molte, non c’è mai una sola causa per un certo tipi di effetti. Invece lo spazio della discorsivizzazione sociale gradisce la semplificazione, vuole sapere se le tecnologie fanno bene o fanno male, se migliorano gli apprendimenti o li compromettono. Difficilmente un ricercatore risulta convincente quando parla al grande pubblico e se questo succede è perché bene o male ha ceduto alla richiesta della semplificazione. Come Pierre Bourdieu (2001) annotava in un libro molto bello come Il mestiero dello scienziato, lo studioso sembra condannato a una scelta di campo: o investe nel suo campo disciplinare, mirando al riconoscimento dei suoi colleghi e accetta di affidare ai canali riconosciuti dalla comunità scientifica la sua possibilità di accumulare quel tipo particolare di capitale che è il capitale scientifico, ma difficilmente riuscirà a essere sufficientemente popolare; o investe nella divulgazione, prova a farsi ascoltare fuori del suo campo disciplinare, ma inevitabilmente perderà legittimazione all’interno della propria comunità scientifica. Del resto, per chi si occupa di didattica, scrivere per gli insegnanti su riviste di aggiornamento professionale non ha alcun valore dal punto di vista della valutazione della propria ricerca. E questo, come si capisce, porta a separare sempre più i discorsi della scienza dai discorsi della gente, lasciando che nei social gli influencers siano spesso altri e non coloro che studiano realmente i fenomeni.

Mediatizzazione e narrazioni di scuola

Come scriveva Gianni Vattimo (1989) trent’anni fa, la nostra società è una società della comunicazione, ovvero una società in cui i media e l’informazione non svolgono solo un ruolo di primo piano nel nostro modo di recuperare la memoria storica, di produrre e condividere conoscenza, di entrare in relazione con le persone (Thompson, 1998), ma concorrono a costruire la realtà di questa società. Una società della comunicazione è fatta anche dai discorsi dei media, con il risultato che non si riesca più a distinguere la realtà dalle sue descrizioni.

Questo vale ancor di più oggi che l’evoluzione di questo fenomeno ha portato i media, come ormai abitualmente si dice attraverso l’appropriazione di una fortunata espressione di Luciano Floridi (2017), a essere on life. Non siamo più noi a scegliere di essere on line od off line, sono i media a essere nelle nostre vite indipendentemente dalle nostre scelte. Si tratta di quel processo di diffusione capillare dei dispositivi nella nostra vita che va sotto il nome di mediatizzazione.

La mediatizzazione è nella indossabilità dei dispositivi digitali, nella loro presenza all’interno delle pratiche con cui si costruisce conoscenza e si allestiscono e mantengono legami. Una società in cui i media sono on life  chiede agli individui che la abitano comportamenti e quadri di pensiero adeguati a far sì che siano in grado di minimizzarne gli eventuali impatti negativi e di liberarne tutte le straordinarie opportunità. Qui si apre l’opportunità per la scuola di mettere a tema la questione della cittadinanza (digitale), che non va pensata come un problema di alfabetismo funzionale o, peggio, di competenze informatiche di base, ma appunto come una questione etica, nel significato etimologico del termine, che rimanda all’ethos, alla sfera del valore e del comportamento, dell’intelligenza dell’azione, della saggezza pratica.

Ma la mediatizzazione è anche nella scomparsa dei media (Eugeni, 2015) dentro gli oggetti di consumo quotidiani. È quel che si definisce l’internet of things, il fenomeno in virtù del quale tutto può diventare smart (intelligente) per la sola presenza di un chip e di una connessione alla rete: un orologio (smartwatch), un telefono (smartphone), una casa (smarthome) come nel caso della domotica. Quando la tecnologia non si vede più, quando essa scompare dietro ai dispositivi di interfaccia e ai quadri d’uso, si può dire che la rivoluzione informatica sia compiuta. I media non sono più qualcosa di distinto, non hanno più una materialità autonoma, ma rappresentano la filigrana del sistema sociale. Una realtà ben rappresentata dal protagonismo dei dati, dal ruolo degli algoritmi, dalla quantificazione come cifra dell’agire economico, politico, sociale. Anche qui la scuola avrebbe da dire e da fare: per sviluppare pensiero critico, per fornire ai cittadini di domani strumenti per sottrarsi alla morsa del “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2019) e mettere a tema il problema della libertà e del controllo.

Infine, la mediatizzazione è nel processo di progressiva perdita di contatto da parte delle immagini e delle informazioni con la realtà cui si riferiscono. Se, come diceva Vattimo, la realtà e i discorsi sulla realtà si confondono, alla fine non si riesce più a distinguere l’una dagli altri. Vale per le fake news, ma vale più in generale per qualsiasi informazione possiamo leggere nel Web o vedere riportata all’interno delle mille discussioni che popolano i social. Ad avverare un famoso detto di Nietsche, pare davvero che alla fine il mondo vero sia diventato favola, che la realtà delle cose rischi di rimanere sepolta sotto le narrazioni costruite su di esse.

La scuola non fa eccezione. La discorsivizzazione diffusa la rende oggetto di tre grandi racconti.

Il primo racconto è un racconto di emancipazione. Esso materializza l’idea utopica secondo cui il nuovo è meglio e deve essere sostituito al vecchio. Polarizzato sulle magnifiche sorti del digitale questo racconto pecca di miracolismo tecnologico, provando a convincerci che sia sufficiente attrezzare la scuola per renderla contemporanea e al passo con i tempi.

Il secondo racconto è un racconto di preoccupazione. In esso lavora l’idea distopica secondo cui il nuovo comporti inevitabilmente la rinuncia a tutto ciò che nel passato aveva valore. Polarizzato sulla rappresentazione dei rischi del digitale questo racconto condivide con il precedente il presupposto deterministico secondo cui la tecnologia produce effetti per impatto, ma in questo caso gli effetti sono negativi: caduta dell’attenzione, regressione delle competenze alfabetiche, inibizione della memoria.

Il terzo racconto è improntato alla retrotopia. Così chiama Bauman (2017) in uno dei suoi ultimi libri l’atteggiamento di chi, di fronte a un nuovo che pone problemi, cerca riparo nel passato. È questa la posizione – molto frequentata – di chi vagheggia il ritorno a una scuola della serietà e dei contenuti, finalmente libera dalle panzane metodologiche dei pedagogisti.

Nessuno di questi racconti ha realmente a cuore la scuola. Soprattutto nessuno di essi coglie correttamente il senso dell’innovazione e del suo rapporto con la tradizione. Seguirli, appiattirsi su di essi, significherebbe perdere l’occasione di usare la crisi per immaginare il futuro.

Come non perdere l’occasione. Un’agenda per l’innovazione

E allora, come non perdere l’occasione? Cosa può suggerire la ricerca didattica alle politiche educative per usare la lezione dell’emergenza al fine di pilotare la scuola verso il futuro, senza indulgere alla leggerezza dei disorsi sociali?

La risposta si può articolare a tre livelli: quello dell’organizzazione di scuola; quello della pratica didattica; quello della professionalità degli insegnanti.

Sul piano dell’organizzazione di scuola abbiamo imparato ad apprezzare in questi mesi le opportunità della deterritorializzazione garantita dalle tecnologie di rete, la loro capacità di rendere meno influenti le variabili di spazio e tempo. Grazie alle piattaforme di videocomunicazione e di elearning si può fare didattica anche a distanza, si può tornare sui contenuti, rileggerli, rivederli. Si può lavorare sull’orario scolastico, trovare soluzioni diverse da quelle tradizionalmente costruite sulla corrispondenza fissa tra disciplina, classe e insegnante. Si può scaricare l’agenda di scuola da molte riunioni che forse possono essere meglio gestite on line o sostituite da una più efficace comunicazione asincrona.

L’idea che ne emerge è quella di una flessibilizzazione, di una revisione del dispositivo di scuola mettendo nel mirino soprattutto l’orario scolastico e le riunioni collegiali. Da promuovere, probabilmente, è il ritorno al dettato di un’autonomia mai presa veramente sul serio, mai declinata e applicata in tutte le sue potenzialità. L’obiettivo è una scuola aumentata e ibridata. Aumentata grazie alle tecnologie digitali e alla loro capacità di creare spazi altri per l’apprendimento: dalle soluzioni outdoor agli ambienti domestici. Ibridata, perché discontinua, fatta di esperienze diverse, parte in presenza e parte a distanza, secondo assetti variabili da decidere nell’ambito del design didattico nel rispetto delle specificità dei territori.

Sul piano della didattica, la lezione dell’emergenza ha consentito agli insegnanti di ripensare le loro azioni professionali.

Si è capito che il progettare – tradizionalmente pratica implicita e centrato sul contenuto – deve essere esplicitato e ricalibrato sulle attività. Esplicitare la progettazione significa scriverla su carta o sullo schermo grazie a un applicativo (penso a Learning Designer, o a DEPIT), renderla così oggetto di riflessività in azione, farla disponibile alla riprogettazione in tempo reale. Progettare significa non replicare, fare i conti con la densità della videolezione rispetto alla lezione in presenza, lavorare in ottica di microlearning, prestando attenzione alla granularità dei contenuti, alle ore effettive dello studente, agli orologi quotidiani e settimanali, al carico cognitivo.

Si è capito che la comunicazione didattica trasmissiva non funziona; va sostituita con una comunicazione dialogica, più relazionale e focalizzata. La mancanza della scuola ha aperto il bisogno non solo di un sostegno cognitivo, ma anche (soprattutto) relazionale, affettivo, ambientale. Serve l’aggancio affettivo, riprodurre i luoghi, riprodurre le routines.

Infine, si è capita la necessità di sostituire una valutazione sommativa e basata sulla misurazione, con una valutazione autentica, diffusa, formatrice. Il recente documento del Ministero dà un contributo importante per iniziare a pensare in questa direzione.

Infine, sul piano professionale, l’emergenza ha consentito di comprendere ancora una volta l’importanza che la didattica nella scuola venga pensata come sapere professionale. Insegnare è sicura padronanza dei contenuti disciplinari e vasta cultura generale, ma anche consapevolezza metodologica. Non esiste solo la didattica (con la d minuscola) che gentilianamente si impara per prove ed errori insegnando; esiste anche la Didattica (con la D maiuscola), con la sua criteriologia e le sue pratiche, i suoi metodi e le sue evidenze di ricerca. Il metodo senza i contenuti è vuoto; ma i contenuti senza il metodo sono ciechi.

Questa professionalità è anche da pensare non nei termini del singolo insegnante, ma della collegialità. Passa anche da qui la nuova cultura di scuola che dovremmo costruire. Una collegialità intesa non nei termini microamministrativi dell’adempimento burocratico, ma nella prospettiva generativa di un gruppo di affinità in cui persone motivate che hanno consapevolezza di fare un lavoro di produzione culturale lavorano insieme condividendo pratiche, sviluppando riflessività attraverso il confronto, creando le migliori condizioni per la riuscita dello studente.

Progettare il futuro

Spesso si è ripetuto che occorrerebbe fare della crisi un’opportunità. Per farlo occorre non rimanere aggrappati alle soluzioni del passato con l’idea che reiterandole funzionino. Serve avere il coraggio di immaginare il futuro, ma anche pensare a quali condizioni questo sia possibile. Scrivono Samuele Iaquinto e Giuliano Torrengo (2018; p. 16) in Filosofia del futuro: «Il futuro sembra “aperto”, pare cioè in grado di essere influenzato dalle nostre scelte passate e presenti, in grado di essere almeno in parte modellato in accordo al nostro libero agire. È verso il futuro che orientiamo le nostre speranze, i nostri desideri e le nostre paure. Non sorprende che gran parte delle nostre azioni quotidiane sia compiuta in previsione del futuro. (…) Ma quanto di questa immagine intuitiva del tempo corrisponde a verità? Il futuro è davvero aperto? E, se sì, come è da intendere esattamente la sua apertura?».


Riferimenti bibliografici

Bauman, Z. (2017). Retrotopia. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2017.

Bourdieu, P. (2001). Il mestiere di scienziato. Tr. it. Feltrinelli, Milano 2003.

Eugeni, R. (2015). La condizione postmediale. Brescia: la Scuola.

Floridi, L. (2014). La quarta rivoluzione. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2017.

Iaquinto, S., Torrengo, G. (2018). Filosofia del futuro. Milano: Raffaello Cortina.

Scuola di Barbiana (1967). Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

Thompson, J. B. (1995). Mezzi di comunicazione e modernità. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1998.

Vattimo, G. (1989). La società trasparente. Milano: Garzanti.

Zuboff, S. (2019). Il capitalismo della sorveglianza. Tr. it. Luiss University Press, Roma 2019.


Per approfondire:

Ripensare l’educazione nel XXI secolo’: al via ciclo di incontri dedicato al mondo dell’Istruzione

La didattica al tempo della mediatizzazione. Tra retrotopia e innovazione di Pier Cesare Rivoltella – WeCa

Educazione: Rivoltella (Univ. Cattolica), “la didattica richiede una comunicazione dialogica e un sostegno cognitivo e relazionale”

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