La conversazione necessaria. Scuola, famiglia e consumi digitali, nell’emergenza coronavirus

di Elena Valdameri

La conversazione necessaria. Scuola, famiglia e consumi digitali, nell’emergenza coronavirus

La conversazione necessaria. Scuola, famiglia e consumi digitali, nell’emergenza coronavirus


di Sara Lo Jacono e Michele Marangi

Nell’emergenza che stiamo vivendo in queste settimane, costretti a restare in casa, la comunicazione digitale ha assunto un ruolo chiave per mantenere le relazioni tra persone: non solo lavorative e didattiche, ma anche affettive, sociali, culturali. Il rischio però è quello di essere sempre connessi, seppure con modalità e stili differenti, minando alla base il concetto di “dieta mediale”, ovvero di un uso equilibrato, sostenibile e consapevole dei media digitali, pregiudicando paradossalmente le relazioni, non solo fisiche, con le persone più vicine a noi.

Il titolo di questo intervento riprende un bel libro del 2015, in cui Sherry Turkle – sociologa, psicologa e tecnologa statunitense – sottolinea la centralità del dialogo in presenza. In un’epoca caratterizzata da flussi continui di immagini, suoni e parole, di tempi morti perennemente riempiti, in cui la solitudine e la noia finiscono per metterci a disagio, Turkle ci ricorda l’importanza della conversazione.

Gli schermi rischiano di colonizzare ogni nostro momento di pausa. Pur avvicinandoci a luoghi e persone distanti, ci allontanano spesso da chi ci sta accanto, con la conseguente incapacità di sviluppare empatia, di riconoscere le emozioni che traspaiono dal volto degli altri. Turkle ci ricorda che il dialogo è indispensabile, poiché aiuta ciascuno di noi, a qualsiasi età, a fare i conti con la propria identità e a confrontarsi con gli altri. Dialogare significa creare ponti, co-costruire il sapere, entrare in empatia, sviluppare la capacità di riconoscere e dare un nome alle emozioni; ci permette di imparare ad articolare idee, bisogni e desideri, fino a renderli comprensibili, magari condivisibili, da chi ci circonda.

Se la conversazione tra gli individui è fondamentale, ancora di più lo è tra le agenzie educative, in particolare tra scuola e famiglia. Perché la tanto agognata corresponsabilità educativa diventi concreta, occorre creare un circolo virtuoso in cui scuola e famiglia collaborano nella definizione di regole e realizzazione di buone pratiche. Come farlo, se non ricorrendo alla conversazione?

Nel 2017 rapporto annuale del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia) su Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali, emergevano tre tipologie di famiglie rispetto al rapporto con il digitale:

  • restrittiva, che impone regole e limita il consumo rispetto ai tempi e ai contenuti;
  • affettiva, che incoraggia i figli al consumo mediale e lo condivide con loro, ma senza fornire strumenti per trasformarli in fruitori critici;
  • mediattiva, in cui i genitori discutono con i figli, indicano possibilità e rischi, aiutano i figli a smontare i contenuti e a coglierne la complessità che li genera e situa. 

Fatte le debite proporzioni tra i profili genitoriali e quelli professionali degli insegnanti, le tre tipologie rispecchiano anche le modalità attraverso cui spesso ci si relaziona con i media digitali a scuola: puro controllo e regolamentazione, tendente al restrittivo; uso condiviso in una prospettiva utilitaristica, ma con scarsa capacità di tematizzazione metodologica; infine, uso regolamentato e dialettico, che intreccia competenze differenti e promuove consapevolezza critica e responsabilità etica.

Per superare queste differenze, appaiono centrali i due concetti che Jenkins propone nel suo fondamentale Cultura convergente (2006): l’intelligenza multipla e le culture partecipative. Secondo Jenkins tematizzare in senso pedagogico ed educativo il digitale – caratterizzato da un alto grado di pervasività e di flessibilità di utilizzo – significa essere capaci a rivedere o a rifondare paradigmi che sono stati utilizzati in precedenza, valorizzando differenti competenze, sia formali che informali, e creando dialogo e interazione tra i diversi attori coinvolti nella comunicazione digitale, oltre i ruoli codificati: studenti, docenti, genitori, figli devono trovare concrete modalità di confronto e di scambio esperienziale sulle significazioni attribuite di volta in volta ai differenti contesti, al valore d’uso e alla significazione dei gesti, dei processi e dei prodotti che quotidianamente elaboriamo con i nostri dispositivi o nei social che frequentiamo.

La prospettiva più funzionale per raggiungere tali obiettivi appare quella della “pedagogia del contratto”, un processo di negoziazione in cui tutti hanno un ruolo.

In questo senso, l’attuale emergenza da coronavirus potrebbe diventare un’occasione per definire sia in presenza che a distanza, sia in ambito formale che informale, un processo comune di incontro e scambio che permetta di confrontarsi anche rispetto ai consumi mediali e al valore d’uso dei dispositivi digitali, identificando strategie educative attraverso la negoziazione. Il dialogo che ne deriverà ci permetterà di ripensare alle nostre diete mediali e di sfruttare al meglio le potenzialità del digitale, pur senza rinunciare al piacere – e al potere – della relazione fisica in presenza, della conversazione con chi è vicino a noi.

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