Funzionare o esistere: spunti di riflessione tra etica, trasmissione culturale e digitale

di redazione

Funzionare o esistere: spunti di riflessione tra etica, trasmissione culturale e digitale

Funzionare o esistere: spunti di riflessione tra etica, trasmissione culturale e digitale


di Silvia Cattaneo, ricercatrice in Neuroscienze, docente di scuola secondaria di I grado, conduttrice di laboratorio di Fisica all’Università Cattolica

Da molto tempo oramai le nuove tecnologie hanno perso il connotato di “nuove” nel senso letterale del termine e sono entrate a far parte a tutti gli effetti della nostra vita: siamo nell’epoca 4.0, si progetta già il 5.0.

Questi numerini puntati, patronimici digitali, epiteti cibernetici, del “piè veloce” Web (1.0, 2.0, 3.0, 4.0), tanto trendy e all’apparenza “innocui”, hanno in realtà una potenza enorme che entra in modo funzionale, importante, imprescindibile non solo sui nostri posti di lavoro, scuole e case (funzionamento/funzionare), ma anche nelle nostre decisioni, idee, scelte (esistenza/esistere).

Nella sua ultima pubblicazione Funzionare o esistere, edita da Vita e Pensiero, Miguel Benasayag – filosofo e psicanalista argentino, che vive e lavora a Parigi, occupandosi di problemi dell’infanzia e dell’adolescenza e dell’interazione fra tecnologia ed essere umano, tra i fondatori  e gli animatori del collettivo culturale “Malgré tout”- scrive che

il lavoro di comprensione della realtà più importante della nostra epoca è quello riguardante lo studio dell’ibridazione tra il vivente, la cultura e gli artefatti prodotti dal particolare consorzio costituito dalle nanotecnologie, le biotecnologie, l’informatica e le scienze cognitive (conosciuto con l’acronimo di Nbic).

Se l’ibridazione è il fenomeno da studiare, il consorzio è una realtà che sta determinando, senza alcuna ombra di dubbio oramai, una svolta fondamentale per le forme di vita sul nostro pianeta.

Le domande che ci possiamo porre a riguardo sono molte e di fondamentale importanza: come possiamo accompagnare i nostri figli, i nostri alunni, in tale ibridazione? Cosa significa per loro tutta questa “novità” e come poter non rimanere noi stessi abbagliati per guidarli con saggezza, sapienza e autorevolezza in questo mondo? Il sopracitato filosofo argentino, nella sua pubblicazione, pone una domanda secondo me davvero molto bella e fondamentale, che ci riguarda da vicino tutti, in modo particolare come docenti e come soggetti dediti – ed in qualche misura lo siamo tutti – alla produzione e trasmissione di cultura: “come possiamo evitare di annientare ciò che costituisce la singolarità del vivente e della cultura?”. 

Tanti studiosi appartenenti al consorzio Nbic (che non è solo Neuroscience and Humanities ma appunto anche fisica, robotica, matematica, informatica, nanotecnologie, biotecnologie ecc) si sono dedicati allo studio su ciò che differenzia il funzionamento e l’esistenza, a distinguere il funzionare e l’esistere.

Non potendo sostenere una separazione ontologica tra queste due dimensioni, poiché non si può vedere da un lato il funzionamento come parte dell’immediatezza e della risposta adattiva dei meccanismi fisico-chimici e  dall’altro lato l’esistenza come categoria del “principio superiore”, di una qualche forza vitale o “mistero” , poiché il vivente funziona a tutti gli effetti e i suoi funzionamenti sono accessibili alla conoscenza (il vivente è un’unità sostanziale di esistenza e funzionamento), il problema oggi consiste proprio nel fatto che – all’interno di questo insieme così perfettamente integrato – si vorrebbero separare in modo del tutto artificiale i processi del funzionamento da quelli dell’esistenza, fino alla negazione totale di questi ultimi.

I processi che riguardano e che caratterizzano il funzionamento di un essere vivente sono qualitativamente differenti dai processi che riguardano la sua esistenza; la domanda è: come possono gli uni emanciparsi dagli altri, come può il funzionamento prevalere e manipolare l’esistenza senza conseguenze? Senza tragiche conseguenze? Le dimensioni che riguardano l’esistere sono quelle proprie dell’umano, della persona, della trasmissione di cultura: la ricerca di senso, la negatività, il non sapere, il desiderio, l’esperienza stessa. L’esperienza infatti non è mai riducibile a una raccolta di informazioni; il procedere di una vita non è mai ascrivibile a una progressione di carriera, ad un insieme di performance, ad un racconto lineare di prestazioni e funzionamenti. Tuttavia oggi iniziamo ad avere serie difficoltà ad identificare qualcosa che sfugga al funzionare. Anzi cerchiamo in ogni modo di potenziare il funzionale e di prevedere l’esistere, fino ad annullare l’esistere stesso; pensiamo al prossimo venturo Web 5.0, o anche solo prendiamo in considerazione l’esistente Web 4.0. 

Ripercorrendo un po’ la storia del word wide web, da quando tutto è partito nel 1989, quando il fisico Tim Berners Lee inventò un sistema che permetteva la consultazione collettiva via Internet di pagine web raggiungibili con iperlink – era solo il 1991, quando pubblicò il primo sito web al mondo, presso il CERN e sviluppò il primo programma in grado di leggere il codice html e i protocolli (http, ftp) Nexius, il primo browser al quale seguirono Safari (Mac) e Explorer (Windows) – ci si è evoluti in modo esponenziale. Si è passati negli anni – dal 1990 al 2000 – al Web 1.0 che, secondo la definizione dello stesso inventore del Web,  Berners, sono stati gli anni dell’only real web, cioè dei siti statici, l’internet dei contenuti, con una frequenza di aggiornamento ridotta,  la possibilità di lavoro sulle pagine era solo quella di consultazione, senza creare possibilità per l’utenza di interazione. Con il Web 2.0, anni 2000-2006, si entra nella fase read-write Web, dove anche l’utenza non tecnica può interagire con i contenuti dei siti e può condividerli; vi è quindi una partecipazione attiva degli utenti, l’uso di social network, Wiki, forum e blog. Nel 2006 si è iniziato a parlare di Web 3.0, ovvero l’epoca del read-write-execute-Web, dove i due kore, i due nuclei concettuali sono stati: dati e semantica. Dati perché la rete diventa anche un enorme database, l’introduzione, prima degli RSS e dei file XML, poi dei rich snippet e metadata, ha dato la possibilità di utilizzare Internet come un enorme database per recuperare dati da fornire all’utenza.

Semantica per i principi e le logiche dell’intelligenza artificiale, ovvero l’impiego di software capaci di interagire con l’utenza. Diversi sono gli esempi di programmi evoluti (Google, Facebook solo per citare i più semplici ecc.) che analizzano i profili e la rete per comprendere come posizionare i contenuti a seconda della qualità e della pertinenza con determinate parole chiave, per cioè indirizzare le scelte, prevenire l’esistere. A livello economico questo ha un evidente e chiaro ritorno: se per esempio attraverso il monitoraggio dei social e della navigazione sul web di un ragazzino, riesco a capire i suoi gusti, attraverso mail, profilature con le tessere dei negozi, messaggi e questionari, cerco di indirizzare le sue scelte perché “mi conviene” essendo io un’azienda, per esempio, che vende le scarpe da ginnastica; in questo modo il funzionare del ragazzino viene assolutamente garantito, ma il suo esistere in qualche modo no perché cerco di influenzare le sue scelte, ma non solo cerco di farlo in modo del tutto invisibile, “processandolo” dall’interno.  Un web potenziato, capace di modificare la società: grazie ai Social Network i contenuti di internet “escono” dallo schermo e modificano il mondo che ci circonda. La potenza del mezzo di comunicazione digitale permette uno scambio di informazioni tra azienda/consumatore, politico/elettore, artista/fans, proprietario/visitatore che fino a qualche tempo fa era impensabile.

E dove stiamo andando verso e con il Web 4.0? Le parole chiave ora sono spazio e big data

  1. La realtà aumentata dei Google Glasses, gli occhiali di Google per esempio per la realtà aumentata o gli smartwatch, interfaccia veloce di comunicazione con il proprio microcomputer portatile (lo smartphone) ci permetteranno in futuro (e in alcuni casi già al giorno d’oggi) di interagire  in tempo reale con il web sovrapponendo il mondo che ci circonda con la rete. Un esempio? Una persona con al viso i Google Glasses potrebbe, dopo aver visionato la cartina per andare in un bar, scegliere di cambiare meta perché in quel momento è sovraffollato o chiuso a causa di un imprevisto. 
  2. Possedere un vero e proprio “alter-ego” digitale. Pian piano che i nostri documenti si aggiornano e collegano fra loro, inglobando chip, man mano che popoliamo la rete con i nostri contenuti personali, i nostri dati e i nostri gusti, i nostri stipendi e emolumenti, andremo a creare un vero e proprio alter ego virtuale, che ci permetterà, nel bene e nel male, di far interagire in real time le due identità: quella reale e quella digitale.
  3. Le interfacce e la domotica, che pian piano si diffondono nelle nostre case con i nuovi nostri elettrodomestici e nelle nuove automobili “intelligenti”, ci permetterà di scambiare i dati relativi al mondo reale con il nostro alter ego digitale. Questo passaggio è garantito dagli apparecchi elettronici che ci circondano e la rete internet.
  4. Con big data s’intende la capacità di interagire e manipolare, estrapolare un’enorme quantità di dati relativi all’identità e saperli mettere in relazione con un obiettivo, uno scopo funzionale: mi interessa vendere, far scegliere, fino a far amare qualcuno o qualcosa.

Nonostante il 4.0 sia in pratica ancora in fase di sviluppo, già si parla di 5.0, ovvero entra in gioco la terza categoria: dopo spazio, big data si inserisce l’emozione. Il Web 5.0 mira ad interagire così come si interagisce nel mondo reale. Il web come alter ego, assistente personale, “Simbiotico”: un web potente e funzionale che cercherà di includere la componente emozionale nell’interazione tra persona e computer. La cultura prodotta durante l’evoluzione umana, se qualcosa ci ha insegnato, è però che l’emozione non è mai del tutto traducibile, che l’esperienza è in divenire e identitaria, non è mai una raccolta di dati. L’esplorazione delle possibilità da parte del vivente è cosa del tutto differente dalla ricerca di performance migliori, il cammino di una vita non ha niente a che vedere con un planning, con la carriera, con i dati raccolti, con i consumi effettuati. Tutti noi però iniziamo ad avere difficoltà a identificare qualche concetto che sfugga al “funzionamento”: nelle nostre vite un anziano viene trattato come un vecchio, un bambino è da “piazzare” da qualche parte quando non “funziona” (scuola, sport, oratorio, corsi ecc.), nelle nostre giornate tutte le incrinature sono difficilmente assorbibili. Eppure ogni fragilità parla di noi, ogni atto creativo, ogni atto frutto del nostro pensiero “produce” perché è un atto potente, potentissimo: è unico, originale e frutto della nostra vita, che è esperienza!

L’intelligenza artificiale e le tecnologie costruiscono artefatti che, per quanto connessi a modelli e connessi tra loro e inter-agenti in rete, non potranno mai condividere gli stessi processi emotivi e identificativi propri dell’esistenza, esattamente come il cervello umano non produce da solo in sé il pensiero! Se c’è una cosa che le neuroscienze ci hanno detto è che il cervello è plastico, correlato  con l’ambiente, che tutte le sue risorse sono con e dall’ambiente modificate e modificabili (epigenetica) e che il cervello partecipa insieme a tutti i sensi, a tutta la parte percettiva, al corpo, alla produzione del pensiero. Un cervello senza corpo non può produrre alcunché. Un corpo senza memoria, affronterebbe pericoli che lo renderebbero vulnerabile in modo tragico. Con il corpo capiamo. Il corpo pensa. Siamo un sistema integrato. Non è possibile distinguere il nostro funzionare dal nostro esistere, ma l’esistere non garantisce sempre il funzionare e in questo il tempo gioca un ruolo fondamentale.

Cosa significa guadagnare o perdere tempo? Certo ho un’ora di lezione alle 9, finisco alle 11, poi ho un’ ora buca. Alle 12 riprendo a fare lezione fino alle 13. Posso vivere in vari modi quell’ora buca: funzionare significherebbe spazientirci con l’ufficio accademico o il collega preposto all’orario che ci ha obbligato a quel fermo, funzionare significa impiegarla per correggere, funzionare significa impiegarla per spesa/salto in biblioteca; esistere significa prenderci quell’ora e… fare molto probabilmente le stesse identiche cose, ma con la consapevolezza e l’apertura al possibile. Posso stare a parlare o prendere un caffè con la certa collega che incrocio poco, ma che tanto mi piace o posso andare solitario a fare due passi e quattro pensieri e prendere una boccata d’aria. Magari poi anche il mio funzionamento ne giova, ma non più solo in termini di prestazione (perché la collega mi ha dato un’idea e mi spedisce via mail il progetto, perché in passeggiata mi sono ossigenato, mi levano mezz’ora di palestra …). Quella boccata d’aria mi ha fatto stare bene, l’ho scelta per me, per la mia esistenza in quel momento. Le nostre fragilità. La fragilità della società e della cultura, tutti quei processi (l’invecchiamento, la caduta, le scelte relative appunto alla tecnologia) le incrinature, il desiderio, tracciano identità e percorsi che fanno cultura, che non sono riconducibili a nulla se non che all’esistere. Senza l’esistere, c’è il vuoto. 

Prendere tempo dal tempo significa capire che il tempo dell’esistenza non si riduce né si comprende attraverso il tempo lineare dei processi del funzionamento.

Quello che pare oggi un compito centrale per affrontare la nostra epoca è agire e pensare nella complessità: si tratta di sottrarsi all’impotenza di esistere, poiché il rischio che si corre oggi è quello di comprendere che ogni agire effettivo ha come condizione l’esistenza. Berthoz già tempo fa teorizzava la semplessità. I nostri corpi, le nostre vite le nostre società non possono essere compresi attraverso solo le griglie utilitaristiche del funzionamento; la dimensione dell’esistenza, la nostra esperienza di vita implicano processi molto più complessi che – certamente e ben venga! – possono essere resi più semplici con vari mezzi. Che mezzi devono restare.

A livello neuroscientifico si sta studiando molto la apoptosi: gli scienziati nel laboratori cercano di capire come e perché queste piccole cellule ad un certo punto si suicidino; in realtà la scultura della vita, per ogni individuo, per ogni specie, per l’insieme stesso dell’evoluzione, funziona al 99% di perdita, funziona così proprio perché la vita continui. Quell’1% garantisce “l’anello che non tiene” di montaliana memoria, garantisce l’esistenza. Se Lucy non avesse avuto l’alluce del piede storto, non avrebbe camminato con due zampe anziché con quattro, né portato il suo piccolo primate in braccio, facendo così  fare un salto evolutivo alla specie di incredibile portata! Chiamare alcuni fenomeni “perdita”, sottintende una visione antropocentrica e limitata, significa ignorare la differenza tra confini e limiti: se non c’è co-evoluzione, né co-limitazione, non c’è vita. La nostra molto probabilmente è la prima società che non sa cosa farsene del negativo, che vuole sempre funzionare ed essere insieme, eppure il negativo è condizione fondamentale. Anticamente erano i miti a spiegare e purificare il negativo, dopo di che i greci hanno fatto assumere alla tragedia questo importante compito catartico. Nella dialettica di Hegel e Marx, il negativo era necessario in quanto “antitesi” da cui poteva emergere la sintesi;  il pensiero e il metodo scientifico, l’uomo moderno crede di poter inglobare ed eliminare il negativo. 

Come reagisce il mondo contemporaneo allo scacco completo di quel progetto che mirava all’eliminazione del negativo?

  1. fondamentalismi, integralismi, tradizionalismi, regionalismi più o meno simpatici;
  2. Spiritualismi, facili pratiche new-age, pseudo-buddismi ecc.;
  3. Universalismo umanista che utilizzando in modo troppo assolutistico la ragione ha fatto delle nostra epoca l’epoca dell’antropocene, facendo anche gravi danni all’ambiente;
  4. Tecnofobia: coloro che scelgono di guardare il futuro attraverso lo specchietto retrovisore, cioè tecnofobici che continuano a pensare che l’uomo debba dominare del tutto il suo ambiente rifiutando l’ibridazione con la tecnologia;
  5. Ipertecnologismi: la reazione del tutto opposta, cioè delegare alle macchine e all’I.A. l’intelligenza artificiale, il ruolo centrale nella vita delle nostre società una iper modernità nei casi più estremi, progetti trans-umanistici che evocano un uomo “aumentato”.

Non esiste l’uomo separato dalla macchina né l’uomo schiavo della macchina: il nostro rapporto con la tecnica si opera nella modalità dell’ibridazione. L’unica questione che si pone a noi oggi è piuttosto sapere e capire verso quale tipo di ibridazione desideriamo andare di fronte alla tendenza attuale dominante di una ibridazione nella quale l’artefatto in qualche modo colonizza e manipola il vivente.  Occorrerebbe cercare di sviluppare nuove strade che permettano l’esistenza di una “molteplicità” di cui la tecnica fa la sua parte. La morte, il fragile, il vecchio, il disabile, l’incrinato, lo storto, sono parte dell’esistere. La ricerca, fino alla promessa, di felicità perenne, di giovinezza perenne, di benessere perenne, di morte della morte, di funzionamento perenne, di desideri esauditi sempre, di esserci sempre, fino alla fine del desiderio stesso (che è mancanza, anelito a, incontro con… ) parlano dell’irrazionalità della nostra epoca, della sua assenza di etica, della sua ingenuità -anche- e assenza di grazia: quale re senza trono, quale trono senza tempo, quale re senza pretendenti alla corona, quale cena non ammette fine, quale arcobaleno senza occhi pieni di grazia per vederlo nell’ora, proprio quella lì…tra nuvole, acqua e sole? Ecco il tempo, lo scorrere, l’esistere. Ecco la relazione di un’etica tra i soggetti, di un’etica nelle situazioni, di un’etica che, ibridando umano e macchina, sappia tener conto della differenza tra funzionamento ed esistenza.


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