Pier Cesare Rivoltella
Intervento alla Camera dei Deputati, lunedì 3 febbraio 2020, Roma.
Sono passati quarant’anni dalla redazione della Dichiarazione di Grűnwald, che si può ritenere la Magna Carta della media education in Europa. Nel 2006 il Parlamento Europeo richiamava i Paesi membri, i ministeri dell’Istruzione dei Paesi membri, a prendere in carico il problema. Ecco, siamo un Paese dove la società civile, il mondo associativo, ha fatto tanto, ma scontiamo un ritardo istituzionale che, spero, da oggi si cominci a colmare a tappe forzate.
Cosa vorrei fare con il mio intervento? Vorrei mettere in prospettiva temporale e in prospettiva curricolare la media literacy, già nella prospettiva di una new literacy.
Dagli anni ‘80 a oggi, i media sono cambiati e inevitabilmente devono cambiare anche le modalità e le metodologie attraverso le quali mettersi in relazione con i media. Proviamo a vedere da dove siamo partiti. Siamo partiti da un tempo in cui esistevano le forme testuali: esistevano nei libri, che erano le forme dei testi più nobili (quelli letterari) e poi con la nascita e la diffusione della comunicazione di massa abbiamo imparato che queste forme testuali potevano anche avere forma mediale. Nel ‘57 – in un libro storico come Miti d’oggi – Roland Barthes per la prima volta ci dice che sono testi anche gli spettacoli cinematografici, un incontro di wrestling, una bistecca con le patatine, che può essere analizzato semioticamente come un testo che dice della “americanità”.
Rispetto a queste forme testuali ci si poneva, dal punto di vista della scuola, un problema di accesso cioè di “conoscenza dei linguaggi”. Come si fa a lavorare sulle fonti testuali, a decodificare le fonti? Bisogna averne un accesso corretto per consentire ai ragazzi di lavorare sui linguaggi e naturalmente il problema dell’accesso era funzionale a garantire la comprensione. Accesso e comprensione, linguaggi e interpretazioni delle forme testuali venivano ospitati, trovavano spazio, all’interno di quel pensiero critico, di quel senso critico, che da sempre si dice la scuola debba produrre come disposizione – come competenza – dello studente nei confronti delle forme testuali.
Tutto questo – comprensione, accesso delle e alle forme testuali in una prospettiva critica – qualificava nel passato l’esperienza del consumo, perché le forme testuali venivano prodotte da altri, i media, e a noi, agli utenti (ai nostri ragazzi) spettava il compito di decodificarle in quanto spettatori, in quanto destinatari, in quanto consumatori.
Oggi le cose stanno rapidamente cambiando, anzitutto perché le forme testuali non sono più disponibili solo nella scuola, mi verrebbe da dire – anzi – che sono disponibili soprattutto fuori dalla scuola. Sono tempi, i nostri, di protagonismo dei contesti informali. Due autori inglesi in tempo recente hanno coniato la metafora dei “terzi spazi”, una metafora molto bella e molto efficace. I nostri ragazzi, più che a scuola e in famiglia, più che nelle sedi istituzionali, producono senso, organizzano ed elaborano significati dentro spazi che sono terzi e che rischiano di sfuggire al genitore, all’educatore, all’insegnante. E naturalmente, oltre ai terzi spazi, veniva invocata l’internet delle cose, oggi è la sociomaterialità a venire in primo piano. Che cosa vuol dire? Che le forme testuali non sono più facilmente isolabili, i testi e i significati sono mischiati con/nella vita di tutti i giorni: i media erano riconoscibili un tempo e oggi sono nascosti dentro gli oggetti di consumo.
Quindi il quadrato delle forme testuali si amplia e si complica, come si complica la dimensione del consumo che non è più unidirezionale, non ci sono più forme testuali che ci raggiungono “solo” come spettatori. Al tempo dei media digitali e dei social anche noi produciamo forme testuali. Produzione e consumo non hanno una sola direzione, ma due.
Occorre fare i conti con il fatto che la produzione e la ricezione delle forme testuali diventino sempre più frontiera etica. Il discorso della ministra lo ha esplicitato in maniera emblematica: oggi la frontiera etica dei media, delle forme testuali ibridate nella nostra vita di tutti i giorni, è uno spazio di responsabilità. Ma non basta la responsabilità, impone la resistenza. I poteri economici forti, oggi, hanno tutto l’interesse a farci concentrare sui dispositivi, a farci credere che il problema sia il controllo degli strumenti, quando sanno benissimo che oggi Il problema non è il controllo degli strumenti, ma sono i dati che ognuno di noi lascia a disposizione di chi può farne uso per profilarci. fin da quando siamo piccolissimi. In sostanza, non la costruzione del cittadino, fin dalla più tenera età, ma la costruzione del consumatore.
E dall’altra parte c’è un problema di creatività. Proprio perché siamo anche produttori di forme simboliche, perché anche i nostri ragazzi sono produttori di forme simboliche fin da quando sono piccoli, si pone il problema che la produzione non sia stereotipata, non imiti gli stereotipi e i modelli diffusi, ma sia creativa e spontanea, originale.
Come si capisce si individuano altre due dimensioni, oltre a quella critica, e cioè quella etica e quella estetica, che credo possano essere (con la critica) i tre pilastri su cui costruire una nuova literacy per questi anni. Il problema non è “liberare ore” dentro una settimana scolastica, il problema è trovare un nuovo approccio alle discipline e ai saperi, un approccio trasversale che metta la dimensione critica, l’etica e l’estetica assolutamente in primo piano.